Come una corretta gestione del conflitto può prevenire la violenza di genere

La violenza sulle donne, o violenza di genere, è un fenomeno che molto spesso ( troppo) si pone alla nostra attenzione, anche nelle sue forme più estreme e di non ritorno: il femminicidio. Le modalità con ci si manifesta la violenza sono di vario tipo, ma ci sono alcuni denominatori comuni. La maggior parte delle violenze e degli abusi avvengono all’interno della famiglia, in quello che dovrebbe essere il luogo degli affetti, della protezione, della sicurezza. Alla violenza fisica, quella più conclamata e di maggiore visibilità, si accompagnano forme di violenza psicologica, come la progressiva distruzione dell’autostima, l’allontanamento dal lavoro, l’isolamento.
Lo schema con cui si esercita la violenza potrebbe essere così riassunto : un primo schiaffo ( o altre forme di abuso fisico) a cui ne seguono altri, spesso intervallati da una “ luna di miele”. Con questo termine si intende un periodo di tregua, tra un episodio violento e l’altro, in cui l’abusante si mostra pentito, addirittura amorevole con la donna. Con il passare del tempo i momenti di “pace” diventano sempre più rari e di poca durata, fino quasi sempre a scomparire del tutto. Di seguito, o in contemporanea, viene posta in atto un’azione manipolatoria che conduce la donna, se in possesso di un occupazione, ad abbandonarla, con conseguente dipendenza economica dal marito o compagno. A ciò si aggiunge l’allontanamento progressivo dagli amici ed anche dalla stessa famiglia di origine, con il verificarsi di un isolamento fisico ed affettivo, che accentua il processo di demolizione psicologica in corso.
Una domanda obbligatoria da porsi, in questo quadro, è quella relativa alla difficoltà che molte donne hanno ad interrompere questa spirale distruttiva, sia a livello fisico che mentale. Non esiste, a mio parere, un’unica risposta, ma molte ipotesi possibili, tutte da utilizzare come ulteriori spunti di riflessione. Innanzi tutto viene in mente la paura, intesa sia come paura della persona che agisce violenza ( non dimentichiamo la deriva estrema del femminicidio), ma anche la paura di affrontare, una volta libera dal legame distruttivo, un nuovo stila di vita. Quindi anche paura di una ritrovata (o forse mai posseduta) autonomia e capacità di autodeterminarsi, paura accentuata dal ridotto livello di autostima in cui viene a trovarsi una donna vittima per lungo tempo di violenza. Vi è poi anche una difficoltà ad abbandonare quella illusione d’amore e costruzione di una famiglia felice e, più forte è stato l’investimento in questo senso, più è difficile cambiare. A tutto ciò si aggiunge anche il senso di colpa, che si manifesta soprattutto, in caso di rottura del legame, come percezione di un fallimento personale. Ciò è alimentato da messaggi culturali, più o meno esplicitati, che ancora enfatizzano, per la donna, l’investimento affettivo/familiare come elemento prioritario, se non unico, della propria vita. L'atteggiamento del partner, con la tendenza a colpevolizzare la donna e a far ricadere sul suo comportamento la responsabilità di quanto accade ( “ sei tu che mi hai costretto a questo…”) rafforza ancora di più la convinzione di essere inadeguata e, in fondo, di meritarsi tutto quello che sta passando. A ciò si aggiunge un profondo senso di vergogna, tipico delle persone abusate. La vergogna nasce in particolare dalla percezione di una violazione del proprio sé, nella sua parte più intima, come se la persona fosse stata messa a nudo. Questo produce un senso di umiliazione, che rende difficile, se non impossibile, raccontare quanto accade, persino alle persone più vicine. Infine, molto spesso, un deterrente all’abbandono di una situazione violenta e mortificante, è costituito dai figli. Purtroppo questi vengono usati, inconsapevolmente, come alibi per il mantenimento della relazione anche se basterebbe riflettere sul fatto che, in un clima di sopraffazione e di disagio, i figli non vivono certo bene, anzi sono a loro volta vittime di abuso, perché anche la violenza assistita è violazione. Inoltre i figli, usati come collante di un’ unione disfunzionale, ne avvertono tutto il peso, sviluppando a loro volta convinzioni auto colpevolizzanti :
“ La mamma non può lasciare il papà per causa mia ed è infelice, quindi sono io la causa della sua infelicità”.
Le persone che esercitano violenza sono portatrici di una cultura che prevede una superiorità di genere e che legittima il possesso. La propria compagna viene quindi vista come una proprietà, come un qualcosa da assoggettare: al concetto di amore si sostituisce il concetto di controllo. Questo bisogno malato ha spesso radici nella storia personale del soggetto che diventa incapace di gestire la rabbia. Occorrerebbe quindi interrompere questa catena di violenze, spesso plurigenerazionale, con interventi sanzionatori mirati, ma anche con azioni di prevenzione. Anche perché, nell’escalation del processo, purtroppo in costante aumento, si chiama così e non omic idio, perché è direttamente legato all’appartenenza di genere. Quindi , aldilà dei modi con cui vien e attuato, il femminicidio è la forma estrema di violenza sulla donna, in quanto tale.
Un interrogativo da porsi, di fronte a tutto ciò, è se sia possibile agire forme di prev enzione che mirino a contenere, se non ad interrompere, la spirale della violenza. La forma di prevenzione primaria in assoluto è, ovviamente, quella di sensibilizzare il più possibile riguardo al problema, stimolando una riflessione sul tema della violenza, ma anche sui ruoli maschili e femminili come socialmente recepiti, su possibili modelli relazionali nuovi, fondati sul rispetto e sulla collaborazione. Sarebbe auspicabile che ciò avvenisse già a partire dalla scuola, luogo deputato alla formazione non solo accademica, ma anche civile e sociale. Questo percorso di sensibilizzazione dovrebbe già iniziare dalla scuola primaria, perché prima si interviene sulla rimodulazione degli stereotipi culturali, più facile è che i nuovi modelli, basati sul rispetto e riconoscimento degli altri, siano recepiti, data la maggiore plasticità dei bambini e delle bambine.
Occorre poi soffermarsi su quanto già evidenziato, ovvero sul fatto che, purtroppo, è quasi sempre la famiglia il teatro in ci si svolgono i drammi di abuso e violenza. Quindi è d’obbligo intervenire proprio sul nucleo familiare, attraverso percorsi mirati, con i quali possano essere affrontati il disagio ed il malessere presenti al suo interno. Uno degli strumenti che è possibile utilizzare , in tal senso, è la mediazione familiare, che si fonda sulla gestione cooperativistica dl conflitto. Infatti, alla base dei fenomeni di aggressione, contrapposizione violenta, reazioni di rabbia incontrollata, vi è l’esasperazione di un conflitto. Nella nostra cultura il conflitto è di norma associato allo scontro, alla violenza, alla distruzione. Genera quindi paura. In realtà il conflitto in sé non è né positivo né negativo. Fa infatti parte naturalmente dei rapporti umani, in quanto evidenzia le differenze che possono verificarsi, o sussistere, nelle relazioni. Se adottiamo questo punto di vista, esso può anche arricchire, perché fa in modo che posizioni, anche molto diverse, possano arrivare ad un confronto, anche partendo da uno scontro inziale. Se ben gestito il conflitto consente di passare da una situazione di scontro ad un situazione di in-contro. E’ quindi la gestione del conflitto l’elemento chiave da cui partire. Esistono infatti due possibilità per una gestione del conflitto: quella distruttiva e quella cooperativistica. Nel primo caso lo scopo è, anche inconsciamente, quello di “vincere” e di primeggiare sull’altro E’ ovvio che queste premesse non portano a nessuna forma di accordo. Infatti, partire dal presupposto di “distruggere” l’altro nega ogni possibilità di mediazione, ovvero la capacità di trovare soluzioni che possano valorizzare le cose in comune e smussare le differenze. La gestione cooperativistica, a cui si ispira la mediazione familiare, avviene in modo inverso. Il principio che sta alla base del processo di mediazione (che, oltre che alla coppia ed alla famiglia, ha molti altri campi di applicazione) consiste in un approccio molto diverso rispetto ad una gestione distruttiva del conflitto. La principale differenza sta nel passaggio da una cultura di contrapposizione, in cui viene esaltato ciò che divide, ad una cultura in cui viene acquisito, come valore, ciò che può unire. Nella mediazione ciascuna delle parti perde qualcosa, a guadagnarci è la possibilità di vivere la relazione nel rispetto reciproco. Da questo punto di vista possiamo affermare che la mediazione rappresenta una cultura di pace. Ovviamente la mediazione non è uno strumento infallibile. Spesso livelli di conflittualità troppo alti, storie pregresse particolarmente complesse, sofferenze personali non risolte possono impedire l’evoluzione del processo. Non dobbiamo dimenticare che nella mediazione familiare vi è un forte coinvolgimento emotivo, in quanto il mediatore, specie nelle prime sedute, deve accogliere sentimenti vari e complessi, come rabbia, dolore, paura, senso di fallimento personale. Tuttavia una situazione, non mediabile in un determinato contesto, lo può diventare successivamente. A volte i tempi della semina sono più lunghi, ma non per questo privi di frutti.
Esistono, comunque, dei casi in cui non si può effettuare la mediazione familiare, uno di questi è la presenza di maltrattamenti e violenza. Ciò significa che, quando la violenza è ormai conclamata, non è più possibile, almeno finchè il fenomeno resta attivo, una gestione cooperativistica del conflitto. Quindi la mediazione si rivela utile in una fase che precede la degenerazione dl conflitto. Possono quindi accedere a questo percorso coppie che vivono situazioni di criticità relazionale e/o che stanno separandosi, nel tentativo di ripristinare una comunicazione efficace e costruttiva, cercando di gestire, insieme ad un professionista qualificato, la loro conflittualità, secondo un principio di reciproca collaborazione. Non dobbiamo infatti dimenticare che la maggior parte dei casi di femminicidio avvengono in seguito ad una separazione, di norma voluta dalla donna e non accettata dal partner.
Nella considerazione dei fenomeni di violenza sulle donne occorre , a mio avviso, effettuare un passaggio dalla dimensione del ”dopo” a quella del “prima”.
Infatti è più semplice intervenire quando un fatto doloroso si è verificato. Molto più complesso e difficile risulta "il venire prima", perché significa interrogarsi e valutare se esistono strumenti che possano aiutare, attraverso una sinergia di azioni, a contenere il disagio prima che degeneri, Dal punto di vista pratico, oltre ad incentivare la sensibilizzazione in età già precoce, come evidenziato sopra ( magari con un intervento interattivo tra famiglia e scuola) potrebbe essere utile un sistema di welfare, che preveda la presenza, sul territorio, di centri dedicati a singoli individui, coppie e famiglie, nei quali possano essere attivati percorsi di consulenza e di mediazione, con lo scopo di ristabilire, o addirittura generare, relazioni funzionali, basate sul rispetto ed il riconoscimento reciproco. In questo modo potrebbe essere possibile arrivare a prendere coscienza di una visione alternativa del conflitto, non più fondata sula distruggere, ma sul collaborare. Allo stato attuale esistono i centri antiviolenza, che sono una risorsa più che valida per le donne che hanno subito, o stanno subendo, maltrattamenti.
Tuttavia, quando una donna si rivolge ai centri antiviolenza, siamo di fronte a situazioni di abuso già agite e conclamate., quindi nella dimensione del “dopo”. Quello che manca è, come sottolineato sopra, la parte del “prima”, ovvero la prevenzione.
Prevenire significa “ venire prima” e questo vuol dire porre in essere strumenti ed interventi che non siano soltanto riparativi, ma “formativi”, nel senso di promozione di una cultura alternativa alla violenza ed al sopruso. Tutto questo anche attraverso la promozione e l’attivazione di centri per le famiglie, con l’obiettivo di arginare sul nascere la deriva distruttiva dello scontro, attraverso l’offerta di un diverso modello di gestione della conflittualità. I centri potrebbero diventare così un punto di riferimento per persone che stanno vivendo momenti di conflittualità relazionale e, attraverso consulenze mirate, offrire percorsi alternativi, che consentano davvero di fermare l’escalatium e ridurre, così, il rischio di derive violente. Per questi motivi penso che ci dovrebbe essere un forte lavoro per incentivare, sia in termini quantitativi che qualitativi, queste strutture, ponendo al centro una visione preventiva, e non solo riparativa, rispetto al fenomeno della violenza sulle donne.
Prima che l’esasperazione del conflitto segni un punto di non ritorno.
Dott.ssa Evita Raffaelli
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